Passa ai contenuti principali

Anime lacerate (capitolo 1)


I polsi gli facevano male, da una tempia sgorgava piano il sangue, il labbro era gonfio e gli pulsava, le gambe sembravano paralizzate.
Cercò di girare il capo, ma non poté poiché una mano forte lo teneva con il volto premuto sul pavimento sporco del suo stesso sangue e degli umori degli altri uomini.
Ormai non aveva più voce e in ogni modo anche se avrebbe gridato non gli sarebbe venuto nessuno in soccorso, e, anzi, sarebbe stato picchiato e violentato ancora più a lungo.
Voleva morire.
Non voleva più sentire mani di uomini sul proprio corpo, schiaffi, pugni, denti, falli che uscivano e entravano in lui squarciandolo, togliendogli ogni volta una particella di dignità.
Voleva piangere, però aveva esaurito tutte le lacrime. Chiuse gli occhi, mentre sentiva che l’ennesimo uomo gli veniva dentro. Forse, se Dio avesse avuto un po’ di pietà, sarebbe finalmente morto.
I quattro soldati, fecero qualche battuta, risero fragorosamente, e, infertogli un’ulteriore calcio, se ne andarono lasciandolo nella piccola stanza. Si rannicchiò, sentiva che il suo corpo non gli apparteneva più. Non poteva essere suo.
Dopo un’eternità sentì delle mani afferrarlo, pensò che i soldati SS volessero prendersi di nuovo la propria soddisfazione, tuttavia non capì come mai ancora non arrivavano calci, pugni, il perchè una lingua non si impossessava della sua bocca, perchè un membro non lo violava.
Era in dormiveglia, era confuso, non capiva cosa stesse succedendo, si sentiva bollente.
Forse, finalmente Dio aveva deciso di togliergli la vita.

Un odore acre lo fece svegliare, aprì lentamente gli occhi e si guardò intorno. Stava in un letto dalle coperte bianche, straordinariamente candide, era da tanto che non dormiva più in un letto soffice, pulito e caldo. Rabbrividì piano. Si trovava in una stanza piccola, scarna, c’erano solo uno sgabello, il letto e un tavolino. Si guardò attorno, non c’era nessun altro. Non si trovava nell’ospedale da campo, pensò, altrimenti si troverebbe in un letto duro, con coperte sporche e forse piene di parassiti, e avrebbe intorno centinaia di persone ferite, ridotte allo sfinimento, prossime a morire.
Quasi voleva credere di trovarsi in paradiso, ma la porta si aprì inaspettatamente e un uomo alto entrò con passi rapidi dirigendosi verso il suo letto.
Vedendolo sveglio gli sorrise appena, gli si sedette accanto e gli prese il polso.
“Ti sei svegliato” disse a bassa voce.
“Dottore…” mormorò Anastasius con un soffio di voce.
“Come ti senti?” domandò lui concentrandosi sul polso debole, che andava accelerando. Il ragazzo voltò la testa dalla parte opposta del dottore.
“Mi lasci morire” chiese piano.
Silenzio.
Un sospiro, una mano fra i capelli.
Anastasius si girò verso il dottore.
“La prego, se davvero ha un po’ di pietà, non mi curi, voglio morire” i suoi occhi erano colmi di calde lacrime. L’uomo fermò la carezza fra i suoi capelli, ma non tolse la mano. Lo osservava serio.
Non voleva farsi vedere in quello stato da lui. Non voleva che lui vedesse i suoi occhi privi di ogni luce, gli zigomi pieni di lividi, le labbra deturpate da baci violenti, il corpo violato e maltrattato.
Non poteva sopportare che lui lo vedesse in quello stato.
Quegli occhi glaciali che gli tormentavano i sogni non smettevano un attimo di cogliere ogni particolare di quello che esternava, anche lui lo stava violentando. E nel modo peggiore. Gli leggeva nei pensieri, lo faceva sentire nudo fino alle ossa, gli sorrideva gentilmente. Non voleva la sua gentilezza, non voleva che si prendesse cura di lui in quel modo, non voleva che lui gli entrasse nell’anima!
“Non mi guardi, la prego” mormorò infine, abbassando gli occhi.
“Perché, Anastasius?” chiese con voce profonda e bassa.
“Come può osservarmi, mentre sono in questo stato? Cosi… sfregiato? Questo non sono io” rispose perdendo la sua personale guerra con una lacrima che cominciò a scivolare pigra lungo una guancia.
“Ci sono molti altri ridotti peggio di te, a me non fa impressione” affermò asciugandogli la lacrima con un dito.
“Non sia gentile! Non lo sopporto” gli tolse la mano dal proprio viso.
“Anastasius, ti sbagli”.
“Su cosa?”.
“Su quello che stai pensando. Sai, io, quando ti guardo, vedo un ragazzo bellissimo che corre lungo un prato di fiori colorati” cominciò a parlare “E sei vestito di bianco, vedo i tuoi capelli neri lasciati alle voglie del vento che gli intreccia in mille nodi, i tuoi occhi verdi brillano come le stelle più luminose e ridi…” chiuse gli occhi “ridi, sento la tua voce squillante e felice, ti lasci andare sui fiori, ne rompi uno e lo annusi” parlò piano, gli carezzò una guancia, stavolta il ragazzo non si scostò “E’ questo quello che vedo tutte le volte che ti guardo”.
Anastasius perse definitivamente il poco controllo che gli era rimasto, scoppiò a piangere in modo incontrollabile. Ormai in una vita come quella, se vita si poteva ancora chiamare, la fantasia e i sogni erano l'unica ancora per non lasciarsi andare alle onde della follia.
Perché era cosi maledettamente gentile? Perché ogni volta che lo violentavano, che lo picchiavano lui accorreva sempre e lo curava con dedizione? Perché mai uno dei dottori più bravi, ma anche uno dei più temibili, si comportava cosi con lui? Con un sospettato omosessuale?
“Tornerò presto” gli sussurrò il dottore andandosene.
Una volta fuori dalla stanza, il dottor Hais si appoggiò alla porta chiudendo gli occhi. Non sopportava di vederlo piangere in quel modo disperato, non voleva vederlo più in quello stato, ogni volta che il suo corpo si trovava in quelle condizioni si sentiva soffocare e ancora non ne capiva il motivo. Quel povero ragazzo era stato preso e messo nel campo di sterminio soltanto perché era maledettamente bello. Non era omosessuale, ne era più che certo, infatti non aveva mai mostrato alcuna attitudine di devianza. Le SS lo avevano preso solo perché cosi si sarebbero divertiti.
Si morse un labbro, la sua salute mentale andava sempre peggiorando.
Cominciava a soffrire di depressione. Un brivido gli percorse la schiena ricordandosi della preghiera del ragazzo di lasciarlo morire.
Si passò una mano fra i capelli avviandosi verso la parte dei malati di tubercolosi. Doveva fare qualcosa al più presto.


Tutto era come al solito. Dopo due settimane, tornava di nuovo nel campo di sterminio. Niente era cambiato: il cielo continuava ad essere plumbeo, il sole si nascondeva dietro alle nuvole per non assistere alle scempiaggini degli uomini, gli alberi erano spogli, il solito odore acre aleggiava nell’aria, le persone indossavano gli stessi stracci, i loro volti erano come sempre sofferenti.
Anastasius serrò la mascella passando davanti ad un SS che gli lanciò uno sguardo languido, chissà se anche quello lo aveva fottuto.
Si mise in fila accanto ad un suo compagno e seguì gli uomini che aveva davanti.
Quanto tempo era passato da quando si trovava lì? Non se lo ricordava, forse erano passati minuti, ore, giorni, mesi, anni, non riusciva più a capire. Non rammentava quasi nulla. Quanto era strano, sapeva perfettamente cosa fosse successo durante la deportazione, riusciva ancora a sentire le persone ammassate dentro un vagone di treno, il puzzo di piscio, di vomito, di morte, riusciva a vedere un superiore degli SS che lo esaminava nudo, di quando gli avevano tagliato i capelli e tatuato il suo numero sull’avambraccio. 299119.
In quel momento aveva cessato di essere un uomo. Era diventato solo un numero. Un numero che doveva sapere a memoria, altrimenti, se durante l’appello non avrebbe risposto, lo avrebbero ucciso seduta stante.
Sapeva cosa fosse accaduto i primi giorni, la scarsità e la schifezza del cibo, gli abiti che non procuravano alcun calore, gli sguardi spenti. Aveva sperato di non diventare mai come gli altri, che sciocco! Aveva pensato che fosse soltanto un incubo, uno scherzo, non era cosi e si rese ben conto nel momento in cui gli avevano messo al polso un bracciale giallo con una bella “A” in mezzo.

Arschficker. Sodomita.
Aveva veramente pensato che fosse una cosa non reale, lui non era omosessuale, aveva a malapena diciassette anni quando era stato rinchiuso lì e, nonostante la sua giovane età, era virile, non era un effeminato e gli uomini non gli piacevano. Certamente era un errore.
Visse con quella convinzione, ma ormai sapeva che a nessuno importava di ciò. E, in fondo, omosessuale lo era diventato.

Non di sua volontà.
Subito nei dormitori alcuni uomini si invaghirono di lui, e lo molestarono, però, per fortuna, un uomo più grande, forse aveva una quarantina di anni, ammonì tutti di lasciarlo in pace poiché era soltanto un ragazzino. Era diventato come una specie di fratello maggiore o un padre che non aveva mai avuto. Lo difendeva sempre e lo trattava con gentilezza. Parlava raramente, tuttavia gli rivolgeva sempre sguardi rassicuranti. Dapprima aveva temuto quell’uomo cosi silenzioso avendo pensato che volesse averlo solo per sé, eppure col tempo capì che voleva davvero difenderlo per quanto poteva dagli altri. Ciononostante una notte Bjorn, questo era il suo nome, non poté fare nulla per lui.
Vennero nel dormitorio, lo presero e lo portarono in uno stanzino illuminato fievolmente da delle candele.
Cercò di urlare, lo minacciarono e gli diedero un calcio nello stomaco. Una volta a terra, mani forti, rozze, assassine gli presero i vestiti di dosso e lo lasciarono nudo come un verme. Ricordava ancora il freddo che aveva sentito. Il dolore. L’umiliazione. La paura.
Lo violentarono per tutta la notte.
La mattina lo ritrovarono fuori dal dormitorio, lo portarono nell’infermeria dove, quando aprì gli occhi, si specchiò in quelli ghiacciali del dottor Hais.
Un uomo dal lungo camice bianco, con un viso rasato e pulito, segnato da rughe premature, dai capelli corti castani.
Lo aveva curato lui personalmente e, poiché non c’erano più posti nell’infermeria, lo prese e lo portò in una camera dove riposava di solito tutte le volte che rimaneva al campo di sterminio di notte.
Da allora era andato nell’infermeria talmente tante volte che ne aveva perso il conto, sempre con un aspetto peggiore.
Ecco. Ricordava all’incirca quello che era accaduto il primo mese, della restante parte del suo soggiorno forzato non ricordava molto, era un tutto confuso. Sapeva solo che il tempo scorreva lento, che faceva freddo, aveva fame e paura, era stanco e voleva morire.
Voleva riposare.
Arrivarono ai campi dopo un’infinità di tempo e subito cominciarono a lavorare sotto gli sguardi vigili delle guardie.
Prese la sua zappa e, affiancatosi a Bjorn, iniziò a rotolare la terra.
L’uomo gli rivolse uno sguardo preoccupato, tuttavia non disse nulla. Anche Bjorn era dimagrito, stava male, la notte tossiva fino allo sfinimento, ma ancora si impensieriva per lui.
Anastasius cercò di sorridere per rassicurarlo, però tutto quello che riuscì a fare fu esternare una smorfia.
Verso mezzogiorno Bjorn si fermò un attimo preso da un colpo di tosse violenta, un soldato subito lo frustò richiamandolo al lavoro. Anastasius volle intervenire, ma uno sguardo di Bjorn lo fece desistere.
“Va tutto bene?” gli chiese sottovoce, quando l’uomo tornò a lavorare.
“Non farlo più” lo rimproverò severamente, si riferiva al fatto che aveva voluto intervenire.
“Ma io…”.
“Non ti devi preoccupare per me, non devi farlo, capito?”.
“Si…” rispose mormorando.
Bjorn strinse i denti fino allo spasimo, come avrebbe voluto carezzargli i capelli e rassicurarlo. Non poteva farlo.
“Sto bene, piccolo” disse infine.
Un soldato venne verso di loro e li osservò.
“Arbeiten! Aber los!*” ordinò e continuò a tenerli d’occhio per tutto il giorno.
*"Al lavoro! Forza!".

Commenti

  1. complimenti.
    uno dei tuoi scritti migliori!
    preciso, accattivante, bei personaggi e anche i legami tra loro e le descrizioni. e com'è scritto. davvero bravissima.

    RispondiElimina
  2. Grazie mille! Te lo dico sempre che tu sei troppo buona. Comunque questo racconto è nato in un solo giorno di sana follia, e te ne accorgerai in seguito, ma penso che ti piacerà, diciamo che è il genere che piace a teXD.^__^

    RispondiElimina
  3. Compliment, davvero molto bello. Mi piace molto, sei riusacita asd esprimere tutto quello che doveva provare in una situazione del genere, dopo che era diventato preda dei desideri delle guardie delle SS.Spero posterai presto il seguito

    RispondiElimina
  4. Grazie tesoro, sei sempre troppo gentile anche tu^__^. Sono davvero contenta che ti piaccia.

    RispondiElimina
  5. Scrivi davvero bene, hai un dono naturale e ciò è meravilioso, perchè solo poche persone sanno quanto bene possa fare esprimere se stessi attraverso parole che provengono direttamente dal cuore...Mi sono piaciute molto anche le parole che hai scritto nel mio blog...confido che quel "sorriso" possa fiorirenel viso di ogni persona che soffre, perchè è inutile e ingiusto chiudersi nel silenzio...
    Appena mi finisce la scuola leggerò tutti i tuoi post, così avrò un'idea completa delle storie!!
    Un Bacio...

    RispondiElimina
  6. Grazie delle belle parole, e qui mi vedo costretta a ricambiare il complimento poichè anche tu sei molto brava ad esprimere te stessa, o almeno è ciò quello che traspare dai tuoi post.Allora a presto.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Noi due ( capitolo 1)

Il bambino cercò a fatica di trattenere le lacrime, si soffiò fortemente il naso sentendo un forte groppo alla gola. Una mano piccola e allo stesso tempo più grande della sua, si posò sulla sua testa e cercò goffamente di carezzarlo, allora alzò lo sguardo sull’altro bambino dai capelli corvini che lo guardava tristemente. Sapeva di avere un’aria patetica, tuttavia non poté far a meno di lasciar cadere le prime lacrime. “ Ma cosa hai da frignare?!” esclamò il bambino cercando di parere impassibile. L’altro, dai capelli biondi,lo abbracciò forte, anche il più grande lo abbracciò, poi improvvisamente si staccò da lui e cominciò a correre. Dopo alcuni passi si fermò e lo salutò con la mano, si rigirò e scomparse all’orizzonte. Gabriel spense con gesto meccanico la sveglia. Sospirò piano posandosi una mano sulla fronte. Non capiva cosa fosse stato quel sogno e come mai sentisse una forte pressione sul petto. Si sentiva quasi a disagio, era come se avesse perso qualcosa di molto importante

Alexandros (capitolo 7)

Cornelius e Aemilia lo seguirono durante la lezione e gli fecero tante domande, invece Julius era molto più silenzioso del solito. Parlando dell’Iliade il giovane gli rifilò una domanda alquanto alludente . “ Maestro?”lo chiamò Julius. “ Dimmi”rispose gentilmente. “ Achille e Patroclo erano davvero amici?”volle sapere. “ Certo” “ Solo amici?”insistette lui e Alexandros capì dove voleva andare a parare. “ Ah, Julius non so se tua sorella…”cominciò lui. “ Non si preoccupi per me! Tanto con questi due attorno si può ben immaginare cosa mi tocchi sentire…!”intervenne lei alzando gli occhi al cielo. “ Bene… se la mettete cosi” borbottò sottovoce, “… a quanto pare i due erano molto… ehm… affettuosi fra loro; nell’Iliade, Omero non rivela con certezza il vero rapporto fra i due, ma ci sono diversi riferimenti che fanno pensare a ciò che sostengono oggi molti intellettuali, cioè che passavano parecchie notti insieme; Cornelius non ti scandalizzare, era una cosa normale, anche ora, dopo tanti s

P. S. Ricordarsi di vivere (capitolo X)

Rientrare in quella casa gli provocò una piacevole sensazione che mai avrebbe immaginato di provare. Quasi si commosse nel sentire, appena messo piede in casa, quell’inconfondibile odore buono, difficile da classificare. Forse era il caffé che ogni mattina preparava per lui e a volte anche per Viktor oppure lo champagne che il bruno gradiva molto. Non lo sapeva, sapeva solamente che era felice di essere di nuovo lì, a casa sua. Mai nella sua precedente abitazione si era sentito così a proprio agio. Lì non poteva fare il bagno quando voleva o mangiare a tutte le ore. Lì faceva la fame e non poteva nemmeno usare i propri guadagni per comprare cibo o sapone. Chiuse gli occhi. No, non sarebbe più stato così. Entrò nella propria stanza, seguito da Viktor, che l’aveva aiutato con le poche borse. “Ecco. Rimetti tu tutto in ordine?” chiese il bruno con il suo solito tono di voce controllato. “Si, non preoccuparti” lo guardò “grazie” disse. L’uomo fece per andarsene ma Erast lo richiamò “non di